Onorevoli Colleghi! - L'Unione europea è il legislatore più prolifico in materia ambientale. I suoi interventi si inseriscono nell'ordinamento giuridico nazionale a volte producendo effetti diretti e vincolanti, a volte imponendo al legislatore nazionale di adeguare opportunamente il diritto interno.
      Se, quindi, prima, le fonti normative con le quali confrontarsi erano quelle tipiche dello Stato nazionale, oggi la cornice normativa si è arricchita, non semplicemente di una fonte, bensì di una pluralità di fonti, quelle dell'Unione europea, tra loro eterogenee, che richiedono un mutamento di mentalità nella ricerca della regola per il caso concreto.
      Non si tratta, infatti, solo di stabilire se un fatto è contemplato da una norma nazionale e se quella norma è compatibile con il dettato costituzionale.
      Nel sistema attuale occorre accertare se quella fattispecie non sia oggetto di disciplina normativa sopranazionale, se tale disciplina sia direttamente applicabile al diritto interno, se, ancora, vi siano state sentenze di un interprete superiore, la Corte di giustizia delle Comunità europee,

 

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che abbiano trattato quel caso e fornito una statuizione, in quanto tale vincolante per il giudice nazionale.
      E ciò è quanto accaduto per la nozione di rifiuto.
      La nozione di rifiuto, infatti, è definita dalla direttiva 91/156/CEE del Consiglio, del 18 marzo 1991, che ha modificato la direttiva 75/442/CEE del Consiglio, del 15 luglio 1975; essa mira sia a favorire l'armonizzazione delle legislazioni, sia soprattutto a garantire un elevato livello di protezione della salute e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della gestione dei rifiuti. Ai sensi della direttiva menzionata, si intende per rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I della citata direttiva e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi.
      L'articolo 1, lettera a), della direttiva è stato originariamente trasposto nella legislazione italiana dall'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (cosiddetto «decreto Ronchi»), secondo cui doveva intendersi per rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi».
      Per tale disposizione, assumeva, quindi, rilievo primario la condotta del detentore, incentrata sulla nozione di «disfarsi».
      Proprio l'atteggiamento del detentore è stato, successivamente, oggetto di interpretazione autentica con l'articolo 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178.
      In particolare, tale disposizione introduceva una doppia deroga alla nozione generale di rifiuto, prevedendo che non ricorressero l'atto del disfarsi e la decisione del disfarsi, se i beni o le sostanze o i materiali residuali di produzione o di consumo:

          1) possono essere e vengono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o un diverso ciclo produttivo o di consumo, «senza subire» alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;

          2) possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o in diverso ciclo produttivo o di consumo, «dopo aver subìto» un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22 del 1997.

      Tale definizione della nozione di rifiuto, soprattutto nella parte relativa alle deroghe, ha formato oggetto della decisione n. 200/2213 - C(2002)3868, con la quale la Commissione europea ha avviato, nei confronti dell'Italia, la procedura di infrazione, ritenendo la richiamata interpretazione autentica contrastante con gli obblighi previsti dalle richiamate direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE, in quanto indebita limitazione del campo di applicazione della nozione di rifiuto.
      I criteri menzionati al comma 2 dell'articolo 14, quali il riutilizzo nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o di consumo, coincidono, ad avviso della Commissione europea, proprio con le operazioni di gestione dei rifiuti che la direttiva mira a sottoporre a controllo.
      Peraltro, tali criteri hanno formato oggetto di rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee, che si è pronunziata sul punto (sentenza 11 novembre 2004, Niselli) statuendone l'incompatibilità con i princìpi comunitari.
      In particolare, il giudice comunitario ha affermato che è ammissibile e non contrasta con le finalità della direttiva 75/44/CEE «un'analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell'articolo 1, lettera a), 1o comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari».
      Viceversa, i materiali che non sono utilizzati in maniera certa e richiedono

 

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una previa trasformazione sono semplici sostanze di cui i detentori si sono voluti disfare e «devono tuttavia conservare la qualifica di rifiuti del processo di trasformazione cui sono destinati».
      Tale pronunzia, del resto, si inserisce in un nutrito filone giurisprudenziale, nel quale non mancano interessanti spunti chiarificatori, che ben possono essere utilizzati, come parametri guida, anche dal legislatore nazionale.
      La Corte di giustizia delle Comunità europee, nel ribadire che l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi» (sentenza 18 dicembre 1997, Inter-Environment Wallonie), ha osservato che tale nozione è da ritenersi comprensiva anche delle sostanze e degli oggetti suscettibili di riutilizzo economico (sentenza 28 marzo 1990, Gessoso e Zanetti). Quanto al sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva 75/442/CEE si è, inoltre, precisato che esso si riferisce a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (sentenza 25 giugno 1997, Tombesi). Gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità attraverso cui stabilire quando ricorre la decisione di disfarsi, senza tuttavia introdurre presunzioni assolute, che avrebbero l'effetto di restringere indebitamente la nozione di rifiuto e, quindi, di abbassare il livello di tutela dell'ambiente (sentenza 15 giugno 2000, Arco). Non contrasta, inoltre, con le finalità della direttiva 75/442/CEE l'ipotesi secondo cui i residui di produzione possano essere dall'impresa sfruttati o commercializzati, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari e sempre che ciò avvenga senza pregiudizio per l'ambiente (sentenza 18 aprile 2002, Palin Granit Oy).
      In sintesi, la Corte di giustizia delle Comunità europee, più che aderire al partito del rifiuto o a quello del non rifiuto, predilige la strada del rifiuto riutilizzato e controllato.
      Che non si tratti di esercizio puramente teorico è testimoniato dalle ricadute sulla delimitazione degli ambiti dell'illecito penale in materia di rifiuti.
      Poiché, infatti, gli illeciti penali in materia ambientale rimandano, in larghissima parte, a nozioni extrapenali, fra le quali, in primis, quella di rifiuto, non è difficile afferrare gli effetti metastatici, coerenti e devastanti, connessi ad una determinata scelta interpretativa.
      Se, infatti, non si tratta di rifiuti, chi li trasporta non può essere classificato come trasportatore di rifiuti (e quindi non deve ottemperare alle prescrizioni connesse); e, ancora, chi li ha prodotti e consegnati al trasportatore neppure può essere considerato un produttore di rifiuti (e, pertanto, va ritenuto esente dagli obblighi e dai controlli relativi); e infine, se, nel trattarli, vengono prodotte immissioni nell'atmosfera, queste ultime non devono ritenersi provenienti da rifiuti (e, dunque, non assoggettabili alla più rigorosa disciplina prevista in materia). E viceversa.
      L'assenza di parametri interpretativi certi incide, quindi, sulla stessa attività di accertamento degli illeciti penali.
      E, infatti, l'incertezza interpretativa determina un oggettivo disorientamento negli organi di polizia impegnati nel contrasto alle attività di illegale smaltimento di rifiuti, mascherate spesso con forme di riutilizzo di mera facciata.
      È evidente, inoltre, il vero e proprio «shopping giudiziario» che tale situazione crea.
      Gli imprenditori, infatti, tenderanno a spostare le proprie attività di riutilizzo in quelle regioni dove si registrerà un orientamento meno rigoroso dell'autorità giudiziaria, conseguentemente penalizzando il mercato e l'occupazione di quelle aree dove, viceversa, gli interventi giurisdizionali mireranno a restringere le maglie interpretative.
      Emblematica a tale riguardo è la vicenda dei rottami ferrosi.
      In tale quadro, di grande incertezza, merita senza dubbio apprezzamento l'intervento operato dal legislatore nel 2006, mediante l'emanazione dei decreto legislativo
 

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n. 152, in attuazione della legge-delega 15 dicembre 2004, n. 308, proprio perché animato dallo scopo di riordinare l'intera materia e porre coordinate certe.
      Tuttavia, si tratta di un intervento che, proprio con specifico riferimento alla nozione di rifiuto, desta non poche perplessità, per il fatto di introdurre una pluralità di categorie («sottoprodotto», «materia prima secondaria», «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche», eccetera) dettate non dall'esigenza di soddisfare un elevato livello di tutela dell'ambiente, quanto piuttosto dall'obiettivo di limitare la nozione comunitaria di rifiuto.
      In particolare, va osservato:

          a) in relazione alla categoria di sottoprodotto (escluso dalla nozione di rifiuto), la certezza dell'utilizzazione è affidata alla mera dichiarazione del produttore, senza la previsione di idonei meccanismi di controllo;

          b) per le materie prime secondarie proprie delle attività siderurgiche e metallurgiche, si prevede, solo per i fornitori stranieri, l'obbligo di iscriversi all'Albo nazionale gestori ambientali; analogo obbligo non viene introdotto per le imprese italiane, con evidente violazione dei princìpi comunitari in tema di concorrenza;

          c) per la spedizione transfrontaliera di rifiuti, si introduce una deroga, difficilmente compatibile con le vigenti previsioni comunitarie ed internazionali, per i rottami ferrosi.

      Va, inoltre, rilevato come, pur essendo ad altre finalità (si veda l'articolo 206) richiamato il meccanismo degli accordi e dei contratti di programma, tale procedura non viene estesa alla materia relativa alla gestione dei rifiuti, perdendo l'occasione di de-ideologizzare il tema della nozione giuridica del termine rifiuto, collegandolo ai moduli organizzativi delle imprese.
      Tale soluzione si collega, peraltro, al Sesto Programma di azione per l'ambiente - «Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta» adottato dal Parlamento e dal Consiglio d'Europa nel 2002, che ha introdotto una nuova strategia che pone in relazione gli obiettivi della tutela dell'ambiente con gli aspetti economici.
      Ogni percorso che miri a ridare certezza alla nozione giuridica di rifiuto non può, pertanto, che tenere conto, da un lato, della mutata cornice normativa (conseguente all'innesto del diritto comunitario) e, dall'altro, della necessità di trovare un adeguato bilanciamento tra l'esigenza di non abbassare il livello di protezione dell'ambiente e quella di non mortificare l'iniziativa imprenditoriale.
      Lo snodo, giuridico ma anche lato sensu culturale, è il comportamento del detentore delle sostanze residuali e, soprattutto, del detentore-imprenditore.
      Occorre, allora, individuare delle condizioni di fatto che dimostrino che la detenzione è finalizzata alla riutilizzazione economica delle sostanze residuali; sicché, se ricorrono tali condizioni, sempre sottoposte a verifica e a controlli, non ci sarà volontà di disfarsi e, quindi, non ci sarà rifiuto; se tali condizioni non ricorrono ovvero vengono meno, la volontà è nel senso dei disfarsi e, pertanto, ci sarà rifiuto (anche se si tratta di rottami ferrosi o di terre e rocce da scavo).
      Senza ricorrere, pertanto, a categorie intermedie che, oltre ad essere di dubbia compatibilità con i princìpi comunitari, si presentano di difficile decifrazione per tutti gli operatori, pubblici e privati.
      L'individuazione delle condizioni di fatto, proprio perché indicative di un atteggiamento volitivo, non può che essere oggetto di una programmazione che deve essere il frutto di scelte imprenditoriali che la pubblica amministrazione sottopone a controllo, preventivo e successivo, quanto alla compatibilità con le esigenze di protezione dell'ambiente.
      In tal senso, va recuperato ed esteso, anche sul versante delle attività finalizzate al recupero dei rifiuti, il meccanismo degli accordi e contratti di programma delineato nel decreto legislativo n. 152 del 2006.

 

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      L'osservanza di siffatti modelli, verificati e controllati dalla pubblica amministrazione, costituirà il parametro non solo per stabilire se il detentore-imprenditore rimarrà entro i confini del non-rifiuto, ma anche per stabilire se e in quale misura l'impresa possa essere chiamata a rispondere dei reati in materia ambientale commessi da soggetti alla stessa organicamente riconducibili.
      La responsabilità dipendente da reato della persona giuridica non è, peraltro, una novità per il nostro ordinamento; essa è stata introdotta con il decreto legislativo n. 231 del 2001. È di interesse ricordare che tale decreto introduce il concetto di adozione di efficienti modelli organizzativi come sistema attraverso il quale l'ente può escludere ogni riferibilità soggettiva alla propria struttura aziendale del comportamento delittuoso del soggetto autore del reato. Si tratta dell'adozione di «buone prassi» al fine di prevenire la realizzazione, mediante la strumentalizzazione dell'ente, di specifici reati; prassi consistenti in condotte positive di buona organizzazione aziendale, in materia di vigilanza e di controllo interno, che vengono adottate ed efficacemente attuate mediante modelli di organizzazione e gestione che, nello specifico, dovranno garantire un adeguato livello di protezione ambientale.
      Va, inoltre, tenuto presente come in campo ambientale gli impegni internazionali rendono indispensabile procedere, a breve, ad un'estensione dei casi tipizzati di responsabilità da reato per le persone giuridiche, come previsto dalla Convenzione di Strasburgo contro il crimine ambientale, del 4 novembre 1998, e dalla decisione quadro dell'Unione europea in materia di crimine ambientale, del 27 gennaio 2003.
      Appare opportuno, pertanto ricorrere a siffatti modelli - negoziabili anche dalle associazioni di categoria, da un lato per consentire all'azienda di esplicitare la propria intenzione di «utilizzare» certe sostanze, anziché «disfarsi» delle stesse, attraverso la adozione, certa e attuale, di un modello di impiego o di produzione che veda inclusa la sostanza come bene, e non come rifiuto, nell'attività di impresa; e, dall'altro, per tracciare, in modo altrettanto certo, i confini entro i quali l'impresa può e deve essere chiamata a rispondere dei reati ambientali alla stessa imputabili.
      La previsione, infine, di opportune misure premiali - strutturate in termini di crediti di imposta - potrà avere l'effetto di promuovere e favorire un vero e proprio circolo virtuoso capace di ottenere il recupero dei rifiuti nelle attività produttive secondo modalità rispettose dell'ambiente.
 

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